Distanza siderale. 25ª Domenica del Tempo Ordinario (A)

distanza siderale

La distanza tra il modo di fare di Dio e il nostro è immensa… Se vogliamo entrare a far parte del Suo progetto, occorre che ci diamo da fare per colmarla.

Letture: Is 55,6-9; Sal 144 (145); Fil 1,20-24.27; Mt 20,1-16

Molte delle parabole di Gesù sembrano raccontate con l’intento di farci scoppiare di rabbia e indignazione, e quella di oggi non fa eccezione, anzi: è una delle più riuscite.

Chi non darebbe ragione agli operai della prima ora che si indignano, vedendosi retribuiti quanto gli ultimi arrivati? Non c’è bisogno di essere sindacalisti per rilevare una palese ingiustizia!

Dio è “di un altro pianeta”

Certo, se il riferimento è la giustizia retributiva (che conta le ore lavorate) non ci son santi… Ma dobbiamo ricordare che Gesù non sta parlando di diritto dei lavoratori e giustizia sociale (o almeno, non come primo intento), ma del Regno dei Cieli:

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna».

Siamo «su un altro pianeta», dobbiamo ricordarcelo. Torniamo con la mente alle “parabole del Regno” che abbiamo ascoltato ormai diverse domeniche fa (cfr 15ª, 16ª e 17ª Domenica del Tempo Ordinario)…

È normale (e voluto) che nasca in noi un disappunto, un’obiezione… come quella dei contadini che volevano strappare la zizzania e invece sono stati invitati a pazientare (cfr Mt 13,27-29).

In un “mondo normale” ci si comporterebbe esattamente all’opposto. Appunto… in un “mondo normale”: così noi chiamiamo il nostro mondo.

Siam convinti che la misura della realtà sia il sistema che abbiamo costruito noi, con le sue regole e le sue abitudini. Ma siamo proprio sicuri che “da noi” vada tutto bene?

Un distanza enorme

La prima lettura ci ricorda che tra il mondo di Dio e il nostro c’è una distanza siderale:

«i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
.

Di questa distanza – però – non possiamo solo prendere atto, ma dovremmo davvero preoccuparcene, perché finché non sarà colmata saremo davvero lontanissimi dal Regno dei Cieli.

Una dottrina sociale ante litteram

Anche se abbiamo detto non essere l’intenzione primaria di Gesù, già dal punto di vista sociale ed etico la situazione descritta nella parabola ha molto da interrogarci e insegnarci.

Per esempio, la nostra società premia la produttività: chi più (e meglio, e prima) produce viene premiato e «si fa strada», nel lavoro come nella vita. Ma è realmente giusto come criterio?

Allora chi non può produrre perché è impedito (fisicamente, mentalmente o socialmente) come fa? Rimane tagliato fuori!

Una società giusta ed equa dovrebbe dare ad ogni uomo la possibilità di vivere in modo dignitoso, riconoscendo che non tutti hanno le stesse possibilità.

Nella parabola, i lavoratori chiamati all’ultima ora sono rimasti in piazza «tutto il giorno senza far niente» non perché fannulloni, ma «perché nessuno li ha presi a giornata». Chissà come mai… forse perché erano mingherlini, deboli, ammalati, handicappati? O – come capita nei colloqui di lavoro per le donne – perché «non erano di bella presenza», o perché «in età fertile» e, dunque, a rischio maternità?!

Giustizia non è dare una paga commisurata alla produttività, ma al bisogno reale del lavoratore: ha più necessità di essere aiutato un imprenditore intraprendente o un disabile a carico di genitori anziani?

Ma basta verificare a chi sono andati i soldi erogati durante il lockdown causato dalla pandemia per renderci conto di quanto sia iniqua la nostra società!

Cerchiamo di pensare al Regno di Dio

Tornando all’intento originario di Gesù, cerchiamo ora di capire la parabola.

La vigna è il Regno di Dio che Cristo ha inaugurato e nel quale tutti gli uomini sono invitati a lavorare, per contribuire alla sua costruzione e realizzazione. Far parte di questo progetto è un onore e una gioia.

Ma le parole di mormorazione degli operai della prima ora denotano con chiara evidenza che – spesso – i credenti percepiscono il loro cammino di fede come un peso piuttosto che una gioia («noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo»).

Non c’è solo la protesta per il trattamento di favore riservato agli ultimi arrivati, ma la lamentela per la fatica che si è dovuta sopportare.

Proprio come quelle “signore di chiesa” che non accettano i moderni “buoni ladroni”, ed escono con frasi del tipo: «eh sì, facile così! Allora anche io faccio quel che voglio, che poi tanto alla fine mi confesso… A che serve faticare tutta la vita?»

Ma una vita, una “fede” vissuta così è veramente cristiana?

In una mentalità siffatta, il rapporto con Dio è un contratto di lavoro (duro) con un padrone esigente, piuttosto che la gioia di avere un Padre che ci ama e ci affida con fiducia tutte le Sue cose.

Quando un cristiano è invidioso della bontà di Dio significa che sta vivendo la sua vita solo come peso, e non ha capito molto della fede, e deve domandare a Dio la grazia di recuperare la bellezza di credere.

Dio desidera che tutti gli esseri viventi facciano parte del suo Regno, nessuno escluso, che tutti ricevano il premio della vita eterna. Invece i “credenti” di oggi si spintonano e “fanno a botte” per avere un posto d’onore garantito, a scapito degli altri, seguendo la regola del «mors tua, vita mea».

E poi facciamo sempre l’errore di ritenerci giusti, o comunque più giusti e meritevoli di qualcun altro che è arrivato dopo di noi, perché noi siamo “cristiani” da sempre: battezzati, cresimati, comunicati, sposati in chiesa, andiamo a Messa tutte le domeniche…

Ma – ragionando così – cosa dovrebbero dire san Paolo, san Francesco d’Assisi o i grandi martiri, davanti alla nostra pretesa di “meritarci” il Paradiso?!

Siamo noi quelli dell’ultima ora! E se non fosse stato il Signore a chiamarci a sé, adesso dove saremmo?

Impariamo dagli ultimi

La parabola sta racchiusa tra due affermazioni pressoché identiche (anche se rovesciate nell’ordine):

«Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi» (Mt 19,30);

«Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20,16).

Scegliere gli ultimi è l’intento programmatico di Dio, da sempre, dall’inizio della Rivelazione e della storia della Salvezza, come la scelta di Israele in quanto il più piccolo di tutti i popoli (cfr Dt 7,7).

Questa cosa noi non riusciamo proprio a digerirla. Tra noi e Dio c’è una distanza immensa: il Suo modo di fare ci fa arrabbiare, ci sembra ingiusto.

Noi vorremmo proporre a Dio di diventare “giusto” a modo nostro (cioè, un po’ “cattivello” come noi, almeno quanto basta); gli vorremmo far vestire i nostri panni… ma invece siamo noi a dover “indossare” i suoi (cfr Rm 13,14).

Per colmare la distanza tra il nostro cuore e quello di Dio dobbiamo seguire la via di Gesù, che ha portato la scelta degli ultimi fino al punto più alto, facendosi Lui stesso povero e ultimo (cfr Fil 2,5-11).

Ma ascoltiamoli, questi “ultimi” che invidiamo così tanto, per capire che – invece – è una fortuna far parte del progetto del Regno fin da subito, dalla prima ora:

Tardi Ti ho amato,
Bellezza tanto antica e tanto nuova;
tardi Ti ho amato!

Tu eri dentro di me, e io stavo fuori,
…Tu eri con me, ma io non ero con Te.

Mi tenevano lontano da Te le creature
che, pure, se non esistessero in Te,
non esisterebbero per niente.

Tu mi hai chiamato
e il Tuo grido ha vinto la mia sordità;
hai brillato,
e la Tua luce ha vinto la mia cecità;
hai diffuso il Tuo profumo,
e io l’ho respirato, e ora anelo a Te;

Ti ho gustato,
e ora ho fame e sete di Te;
mi hai toccato,
e ora ardo dal desiderio della Tua pace.

(Sant’Agostino, Confessioni X,27)

Se avesse saputo cosa lo attendeva, se solo si fosse deciso prima! Tutti i “convertiti dell’ultima ora” testimoniano il rammarico di non aver incontrato prima il Signore.

È come una festa bellissima: se la scopriste quando ormai sta finendo e poteste entrarvi a farne parte solo per cinque minuti (sapendo che era cominciata giorni e giorni prima), come vi sentireste?

Beh, se la vita cristiana non è percepita come una festa di cui non perdersi nemmeno un attimo, occorre farsi un bell’esame di coscienza!

Abbiamo del lavoro da fare

Diamoci da fare per colmare questa distanza tra noi e Dio, tra il nostro cuore e il Suo!

Riappropriamoci della coscienza di essere lavoratori della vigna del Signore, di aver ricevuto da Lui l’onorevole compito di contribuire alla costruzione del Suo Regno!

Siamo gioiosi di quel che siamo e che facciamo, non cristiani “musoni” e sempre pronti a criticare e a guardarsi con sospetto l’un l’altro!

Accogliamo con letizia tutti i fratelli nella fede che il Signore vorrà aggiungere alla nostra Comunità!


Termino lasciandovi come preghiera (da ripetere frequentemente) la parte finale dell’Orazione di Colletta:

apri il nostro cuore
all’intelligenza delle parole del tuo Figlio,
perché comprendiamo l’impagabile onore
di lavorare nella tua vigna fin dal mattino
.